A dicembre è sempre tempo di conclusioni, di tirare le somme
sul passato prossimo, quello che ancora tutti sentiamo di più. Fa parte del
presente perché la nostra condizione deriva da scelte in base all’esperienza o
alla convenienza verso un futuro ancora dipendente da reazioni altrui o
dall’andamento della vita stessa.
Con questi e altri pensieri vagavo per le vie della città
addobbate a festa senza sentire il minimo calore. Mi stringevo nel mio cappotto
come un povero senzatetto in cerca di quel qualcosa che non si può trovare in
alcun negozio. Ero in cerca di affetto.
Alla fine dell’estate avevo chiuso una relazione, una di
quelle importanti nelle quali ci si crede fin nelle viscere. Era in effetti
finita da tempo per la routine, per la mancanza di un progetto, di un senso
comune di cura e rispetto delle proprie aspirazioni. Lo avevo scelto io per non
aver il coraggio di affrontare altro che l’inverno con le sue cupe e corte
giornate. Crisi di mezza età, ma non solo. I miei genitori erano morti l’anno
prima a poca distanza l’uno dall’altro e i miei fratelli mi avevano affidato il
compito di disfarci dell’eredità. Non che ci fosse granchè da dover sbrigare ma
quel peso mi si abbattè sulla coscienza con ancor più gravità. Ancora non mi
era chiaro se quanto avevo deciso andasse bene a loro, che continuavano la
propria esistenza ripartita tra famiglia e lavoro, senza passioni che accendano
gli animi. Mamma e papà si erano amati invece e avevano curato la casa e il
piccolo orto personalmente e ne erano sempre andati fieri. Poi non avevano
retto all’onda di tante cose non facendo nemmeno a tempo a dettare le loro
volontà.
Così, con l’anima contrita di un peccatore incongruente, mi
ritrovai davanti la piccola cappella, residuo di una vecchia residenza
nobiliare racchiusa tra ampi palazzi dallo stile neoclassico molto in voga in
un certo periodo della nostra storia. Mi ci portava il nonno quando ero un
ragazzino ed entravamo ogni tanto ad accendere una candela alla raffigurazione
della natività, icona forse settecentesca che a lui trasmetteva un certo
sentimento. A me piaceva il gesto di poter strofinare il fiammifero e veder
sprigionare la piccola fiamma dallo stoppino impregnato di cera.
Entrai e cercai sia il quadro che il piccolo angolo di
luminarie. Trovai invece luci soffuse emanate da fiammelle a led, tremolanti ma
fredde. Soltanto il fondo della navata era adornato con il Cristo in croce, una
scultura lignea di un non noto intagliatore regionale in vena di
scimmiottamento artistico. Intorno a me il vuoto che accrebbe il tremore e
l’intorpidimento interiore che, colpa anche la temperatura esterna, ormai si
era impadronita di tutto il mio corpo.
Stavo per andarmene a cercare per lo meno un baracchino di
vin brulè, ricordandomi poi che li avevano chiusi per minimizzare gli
assembramenti che avrebbero aumentato il contagio sociale di una certa
malattia, quando notai dietro la pesante porta un piccolo tavolo con due
cestini. Mi avvicinai. Su di uno c’era scritto DONAZIONI e sull’altro
RICHIESTE. Pensai a uno scambio anonimo di qualche servizio reso gratuitamente
alla comunità ma vidi anche che al di sotto della superficie del tavolo era
posizionata una cassetta per le offerte. Come fossero riusciti a crearne una
rotonda o comunque come avessero adattato il frontale al profilo curvo ancora
mi è un mistero.
La mia curiosità mi fece affacciare a quella piccola
iniziativa strana di cui probabilmente solo alcuni avevano avuto notizia. I due
cestini erano pressochè vuoti ma al loro interno erano stati depositati dei
contenitori di forma uguale alle capsule medicinali in un materiale che al
tatto sembrava sughero. Sotto la superficie del tavolo sul quale erano poggiati
i cestini e coperto da una sottile lastra di vetro compariva una sorta di
volantino. Devono averlo prodotto con la stampante di casa, pensai, poiché i
caratteri erano tipicamente standard – Arial o Times new roman, se non erro – e
il toner non copriva bene tutti gli spazi dovuti. Il messaggio però era chiaro:
chi voleva poteva lasciare o una piccola somma o un biglietto con il proprio
desiderio che poteva venire “raccolto” da coloro che si sentivano in grado di
soddisfarlo. Ne presi uno a caso nel
piccolo mucchietto, lo aprii e… Quasi svenni. Non so se fu il caso o il destino
ma mi trovavo tra le mani il desiderio della mia ex. Sapete cosa chiedeva? Un
bacio. Sì proprio un bacio. Come facevo a sapere chi lo chiedeva? Sul retro
aveva segnato il suo numero che io ricordavo a memoria con l’annotazione
“sabato 24 dalle 18 alle 20”.
Ci eravamo lasciati per la sua freddezza nei miei confronti,
per il suo disinteressamento al mio percorso professionale “danneggiato” dalla
mancanza dei miei genitori che tanto mi avevano sostenuto e supportato non
soltanto economicamente. Come mai ora lei chiedeva affetto? Si era pentita? Le
mancavo?
Lasciai contenitore e contenuto sul piccolo tavolino nella
luce fioca dei led freddi, alla mercé di chiunque sarebbe entrato dopo di me.
Me ne uscii stravolto e sudato come dopo una corsa con il respiro affannoso.
Non vidi altro che una fitta nebbia che mi avvolgeva
intensamente. Non sentivo più il gelo di prima e anzi avrei gettato il cappotto
per terra e avrei urlato la mia rabbia mista a disperazione. Tutto mi sembrava
inutile in quel momento. Disorientato e in preda a quel vortice di emozioni
devo pure essere inciampato in qualcosa trovandomi improvvisamente a terra con le
mani sporche di qualcosa di appiccicaticcio e maleodorante.
Trascorsi dei minuti in quel limbo fino a quando qualcuno
non venne in mio soccorso e le voci si fecero più chiare. Forti braccia mi
sollevarono e un fazzoletto imbevuto di una sostanza alcolica mi venne
strofinato alla ricerca di eventuali ferite o escoriazioni. Salutai tutti
subito come un ubriaco che si allontana dalla combriccola per scolarsi gli
ultimi sorsi nel buio del vicolo preferito.
Rinvenni a casa, sprofondato sul divano accanto alla intensa
luce della lampada da lettura. Le mani ancora maleodoranti, i pantaloni
umidicci, le scarpe irrimediabilmente strisciate, la mia coscienza riprese le redini
del mio cervello. Mi abbandonai alle forme dello schienale chiedendomi se non
fosse comunque stato solo uno strano sogno. Non potevo tornare alla cappella,
avendo ormai oltrepassato il limite del coprifuoco, ovvero l’orario entro il
quale ogni persona doveva rientrare al proprio domicilio.
Quel bigliettino mi era rimasto impresso non soltanto nella
mente e anche nei giorni successivi mi ritrovai a ripensare all’accaduto. Sarei
stato tentato di dichiarare di nuovo il mio amore per lei? Mi sarei presentato
con il mio vero nome o avrei oscurato anche il mio numero di telefono?
Non lo saprò mai. Siamo a Sabato 24 alle ore 20.01. Lei è
una "precisina".