venerdì 19 aprile 2013

ZUCCHERO SCANDITO

“Noi siamo quello che mangiamo” e ancora ”Il cibo influenza il nostro essere”. Queste frasi mi frullano come turbini nella mente, ora che sono appena uscita dallo studio medico.
«Disturbi nell’assimilazione degli zuccheri» questa l’amara sentenza del medico che reggeva tra mani impazienti i risultati delle mie analisi e degli esami relativi. « Non c’è bisogno di insulina né di medicine, per il momento, ma il problema non è da sottovalutare, soprattutto alla sua età.»
In questa bellissima giornata di primavera le lacrime sgorgano generose dai miei occhi. Girovago senza meta nei vicoli della mia città. Mi trovo di fronte a un parco giochi dove bimbi vocianti  corrono e si rincorrono con allegria. Mi siedo su una panchina accanto a un anziano signore che sta leggendo il giornale. Ci scambiamo un breve cenno di saluto, uno di quelli che si fanno solo per cortesia, perché non conosci la persona, ma vuoi essere educato.  Abbassa per un attimo i grandi fogli che tiene in mano e scorgo un bastone appoggiato al suo fianco.
“Ecco – penso - così mi ridurrò tra poco”. Il mio umore peggiora e nemmeno gli alberi in fiore mi sollevano. È una strana, stupida primavera che non vorrei avere proprio sotto gli occhi. Infatti non la osservo, ma nemmeno la fisso. Il mio sguardo è altrove, ma chissà dove. Si è rintanato nei miei pensieri, nel mio profondo rifiutandosi categoricamente di uscire allo scoperto. Anche dentro è buio, un tunnel infinito senza barlume di lunghezza.
Sono qui seduta, ma non riesco proprio a combinare nulla, nemmeno a pensare. Non voglio, perché mi fa troppo male. Non voglio affrontare il domani, men che meno il dopo.
Spengo il telefonino per non dover rispondere. E come farei se non ho risposte nemmeno per me? Condivisione non serve, anzi sarebbe forse deleteria: tutti mi convincerebbero ad andare avanti.
Mi sento stanca, molto stanca, mentre le lacrime, senza un senso, scorrono giù dalle guance senza freni, come una corsa giù per una salita. Ecco, forse, correre, spazzare via tutto questo pianto inutile.  Correre all’impazzata per stordirsi, per andare incontro al caso e fermarsi solo quando è lui che ti pone una pausa.
“Non è giusto!- grido dentro di me- perché proprio io!” Ma la voce non esce. E improvvisamente mi ricordo di Gesù sulla Croce, lui che di miracoli se ne intendeva, alzare gli occhi al cielo ed invocare, nel momento estremo, la volontà divina.
Forse lo devo accettare come ha fatto lui, immolarmi per far posto a qualcuno che ha un progetto più interessante, importante, urgente. Forse.
I pensieri continuano a turbinare. Mi lascio andare sulla panchina alla stanchezza e chiudo gli occhi: ricordi di tempi felici mi assalgono. Ma quale felicità? Quella del non sapere e della speranza?
Mi alzo, a fatica e, un piede dietro l’altro, mi sposto. Forse la panchina non era il posto adatto. Il malessere è continuo oggi, più incessante e frastornante di sempre. Vorrei urlare: BASTA! Non funzionerebbe, lo so.
Vorrei porre in qualche modo la parola fine a questa storia, ma non ci riesco. Le prospettive di riuscita sono poche, a detta del medico. La mia capacità di sopportazione è nulla.
Sono stanca e non reagisco. Continuo la mia passeggiata attorno al parco solo per inerzia, a testa bassa, il passo stanco. Il vocio dei bambini non mi tocca.
Frugando nella tasca trovo una caramella. Già nel suo aspetto qualcosa di molto dolce. Ma se poi mi fa male?  Chi mi raccoglie? E se mi sento male in casa?
La lascio lì, a continuare a darmi fastidio, ma fuori dalla mia vista. Dall’altro lato della strada una gelateria artigianale. Una voglia. No anche questo potrebbe …. Ma io come farò?
Qualche metro più in là una erboristeria. Non l’avevo mai notata. Devono averla inaugurata di recente. La porta di ingresso è aperta e l’umidità dell’aria amplifica gli odori che ne escono. L’insegna porta la scritta: ”PARAFARMACIA”.  Sugli scaffali una lunga serie di confezioni, scatole, tubetti, vasetti tutti colorati; alla vetrina antica, resto rimodernato di qualche antico negozio, dei contenitori in ceramica con delle scritte quasi illeggibili. Spezie ed erbe medicinali. L’odore è buono, invitante.
Entro nel locale deserto, mi siedo su di una poltroncina e mi guardo attorno. Odore di antico si mischia con il nuovo.  Mi assorgo ancora nei miei pensieri, ma la tristezza non è più tanto cupa.
A passi leggeri arriva qualcuno, forse la titolare, in camice bianco. Si siede accanto a me e mi chiede come sto, come va. Mi dice che sono pallida in volto e mi invita nel retro, per una tazza di tè. Vorrei rimanere lì seduta ancora un poco e non vorrei attardarmi. Con voce suadente, soffusa, la signora mi dice che posso restare e che la tazza me l’avrebbe portata lei.
I miei pensieri si calmano, ma ancora non smettono di  ronzare. Cosa ci faccio qui? Perché mi sono fermata? Tante altre domande si insinuano, domande che non trovano ancora risposta, riscontro.
La signora esce dal retro con un piccolo vassoio in mano sul quale ci sono una tazza fumante, un bricco con del latte, un piattino con dei pasticcini e…. NO! Orrore! Dello zucchero!  La mia smorfia deve essere molto palese. La signora si ferma e mi chiede se abbia qualcosa contro il tè o contro di lei.
“No, nulla di tutto ciò – rispondo  educatamente – è che, vede, proprio oggi, mi hanno diagnosticato  seri problemi con l’assimilazione degli zuccheri,  a me che sin da piccola ne sono sempre stata golosa!”
La farmacista, della quale scorgo il cartellino con il nome e la qualifica appuntato sul bavero del camice, poggia il vassoio e mi dice se voglio andare nel retro a parlarne. Di medici ne ho già visti tanti e ora  dovrei aggiungere pure lei?
Ho bisogno di bere qualcosa e quindi accetto. Dietro una sorta di tenda si apre il retro bottega, nel quale sono sistemati degli scaffali con tantissimi barattoli, scatoloni vuoti, ma anche da svuotare,  una scrivania con un computer, un apparecchio fax che funge da telefono, una lampada. Ancora più dietro,  su un soppalco rialzato da tre larghi e bassi gradini, una specie di ambulatorio con un’altra scrivania piena di carte, un lettino da medico, una poltrona, degli apparecchi medicali. La signora mi spiega che le attuali normative le consentono di fare dei prelievi, di aiutare le persone nelle cure, nelle medicazioni, di dare un servizio basilare, ma efficace e professionale, al malato. Mi parla di volontariato in paesi lontani, ma anche di piccoli incidenti accaduti al parco, di medicazioni eseguite su anziani soli, persino di una aggressione da parte di un drogato in preda ad una crisi. La sua voce è dolce e le mie orecchie cominciano seriamente a darle ascolto.
Qualche sorso della bevanda mi ristora lo stomaco, ma è terribilmente amara. La mia bocca si storce. Proprio questo è il pretesto per parlare dei miei sintomi, del mio umore, della mia vita.
Con esitazione piena di scetticismo estraggo le mie carte dalla borsa e le porgo alla dottoressa. Lei inforca gli occhiali e recita: “Siamo il cibo che mangiamo”. Cominciamo a parlare di medicina e di medicamenti, di soluzioni, di esami, di dettagli, di….
Fortunatamente è presente anche un garzone, magro e alto, con occhiali da miope. Ogni tanto si affaccia al retro, passa a prendere qualcosa, o ci raggiunge con qualche ricetta incomprensibile.  La signora dà il suo responso e quello se ne ritorna in negozio. La conversazione continua, mentre il tempo passa scandito dall’orologio a pendolo del retro. Devono avere staccato il meccanismo delle ore perché non si sentono rintocchi. Le lancette fanno il loro percorso, immutabile, silenzioso.
Ad un certo punto la signora si alza e va a prendere un flaconcino che riempie di pilloline grosse come un chicco di riso. Me lo porge. « Ecco qui. Un nuovo ritrovato. Si chiama “Zucchero Scandito”. Non è né zucchero né un dolcificante, ma rende tutto meno amaro. Lo prenda per il momento a ogni pasto. Una pillolina sola, mi raccomando, alla volta, da sciogliere piano piano sotto la lingua. Le do la dose per  5 pasti al giorno e ci rivediamo tra una settimana.»
“Tutto qui?” La mia bocca non proferisce suono, ma la mia espressione deve aver disegnato molto bene il punto di domanda. Prima di uscire una misurazione di pressione e una prova glicemica di quelle dei diabetici. Esco pagando alla cassa e, tramite tesserino sanitario elettronico, lascio i miei dati. Tutto perfettamente organizzato.
Sulla via di casa mi chiedo: come avrà potuto la farmacista capire di cosa avevo bisogno senza farmi fare corse per esami forse inutili? Avremo chiacchierato di me per forse due ore, mentre tutti i medici ti concedono si e no un quarto d’ora, visita compresa. Chi è poi quella persona? Una farmacista o una santona? Funzionerà davvero questa cura?
Attraverso il parco di nuovo. Mi fermo alla panchina di prima dove il vecchietto col giornale e il bastone non c’è più. Mi siedo  e guardo il flacone. Non c’è scritto altro che: “ZUCCHERO SCANDITO”, quantità 35 pillole, data confezione. Cosa faccio? Le prendo? Mi fido? E se fosse solo un placebo?
Mi guardo attorno e mi accorgo che ora il parco esiste, esiste per i miei occhi, per la mia mente. Guardo in direzione della farmacia. Esiste anche quella?
Improvvisamente mi accorgo di essere passata dalla più buia depressione e tristezza con un risvolto forse suicida, al domandarmi del domani, discutere con me stessa sulla validità di una cura sconosciuta. Nel mezzo un negozio che sa di antico, una persona che sa…. Ascoltare.
Mi alzo di scatto, corro, corro in quella direzione, corro sempre più spedita. Ecco il caso!